Libri su Giovanni Papini

2008


Giona Tuccini

Voce del silenzio, luce sul sentiero
Di altre pagine mistiche tra Italia e Spagna

PREMESSA - ABISSALI ESPERIENZE, pp. 9-12
1-02-03-04-05-06-07-08(9-10
11-12-13-14-15-16)-17-18-19-20



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   Questo nuovo libro sulla letteratura mistica rappresenta il frutto di quattro anni di ricerche (2001-2005) e corre parallelo al precedente Spiriti cercanti. Mistica e santità in Boine e Papini (Quattroventi, 2007) che trova qui la sua naturale completezza. Nel sottotitolo Di altre pagine mistiche tra Italia e Spagna c’è trucco sintagmatico: con altre pagine intendo stabilire un ponte formale e sostanziale con le soluzioni critiche fornite nel volume del 2007. In quella sede mi sono proposto di vagliare le penetranti considerazioni di Giovanni Boine e Giovanni Papini su Juan de la Cruz, Anselmo d’Aosta e Agostino che, di loro, furono i grandi interlocutori interiori; nell’edizione presente, invece, raccolgo i capitoli sul Pragmatismo, sul Modernismo, su Ramon Llull e Ignacio de Loyola, sempre traguardati dall’angolo interpretativo di questi dioscuri della letteratura primonovecentesca. Pertanto, il lavoro del 2007 e questo del 2008 nascono da un’identica preoccupazione critica e sono interdipendenti. Più semplicemente, condividono fisionomia e struttura; i sondaggi in essi raccolti non costituiscono una miscellanea di studi né trovano il loro comune denominatore in un àmbito puramente tematico, ma rientrano nella logica di un progetto di ricerca omogeneo (quello originariamente svolto durante un corso di dottorato), almeno quanto a motivazioni e finalità. Il proposito di quella impresa era, infatti, l’analisi dei materiali boineani e papiniani più consoni ad un’indagine di tipo comparatistico; e questo perché, nelle loro opere più disparate, la dottrina dei padri della Chiesa e le scritture dei mistici ispanici hanno svolto una particolare funzione auto-rivelatrice nello stadio ancora iniziale della formazione del Sé. Non solo: la rielaborazione delle varie esperienze mistiche, considerate dai nostri scrittori, costituì lo


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spazio privilegiato per l’espressione delle proprie inquietudini e della propria tensione lirica. Nel capitolo II di Voce del silenzio, luce sul sentiero, riprendo e approfondisco lo studio della theologia cordis sangiovannea, svolta nella prima parte di Spiriti cercanti; indagine ora problematizzata con il vaglio contestuale dell’opera di Miguel de Molinos, anch’essa oggetto della laboriosa riflessione di Boine sulla mistica spagnola, compiuta negli anni de «Il Rinnovamento». Le riviste italiane – sosteneva Prezzolini attorno al Venti – si potrebbero dividere in tre gruppi, con una curiosa partizione: quelle che stanno, quelle che vanno, quelle che contano. Quelle “che contano” – ai fini delle nostre ricerche – sono le riviste, come il «Leonardo» e «Il Rinnovamento» appunto, che non hanno un pas- sato e non vivono su quello, come il tarlo sulla morte del legno o un erede sul patrimonio del proprio avo; non sono vòlte a scongiurare, come le riviste “che vanno”, la corrosione del tempo perché, sor- gendo da una frattura con la seconda parte del secolo Diciottesimo, non hanno posizioni acquisite da mantenere, ma badano a rinve- nire ciò che è ancora celato, o semplicemente sopito. Dopo tanto positivismo, lombrosismo e metodo storico del più ottenebrante, i pragmatisti e i modernisti ebbero parole di risveglio; parole appas- sionate prima ancora che mirate, visto che il «Leonardo», per esem- pio, cambiò formato tre volte in cinque anni (e forse molto più di idee), passando da un entusiasmo ad un altro, da una vampata ad un incendio. Erano giovani straordinariamente inquieti – come negarlo? – ma, con la chiamata ad un misticismo personale o, più generalmente, con la fede nell’eccellenza dello spirito, si sollevarono sopra la prosa quotidiana ed insegnarono ad uscire dalla turba degli inetti. Quindi, gli scritti di Papini e Boine comparsi sul «Leonardo» e sul «Rinnovamento» trovano naturale cittadinanza in questo libro (come negli Spiriti cercanti), perché fecero continuo appello alle forze intime della personalità, contro la ragione; tesero i loro intenti verso la pratica e la realizzazione, sulla scorta degli ammaestramenti di William James e Henri Bergson. Le idee espresse e i personaggi sono noti (per quanto siano perlopiù negletti nel dibattito contem- poraneo). Non sto qui a presentarli, dato che l’ho già adeguatamente


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fatto nella Premessa apposta al mio lavoro precedente. Con i capitoli che seguono, vedremo che Papini è rimasto sempre quello; dopo la conversione del 1919, le idee sono mutate, i credi sono crollati per essere rinnovati, odi e simpatie hanno ceduto, ma il suo carattere di mistico dolente – che prima trovava il suo contenuto nella polemica e nella stroncatura, poi nella sensibilità di uno spirito rassegnato – è lo stesso fino all’ultimo. Nel capitolo IV, l’esame binario del- l’Uomo finito e dell’Homo apostolicus, del primo e dell’ultimo Papini, perviene all’esigenza metodologica di rivalutare i vecchi materiali, documenti già depositari dei presupposti di una scoperta religiosa autentica che, con la Seconda nascita (1923), approda a risultati let- terari di straordinaria bellezza. E Boine – come dimenticarlo? – si dibatteva con se stesso senza costrutto, col cuore forte e il corpo invecchiato troppo presto, con le irruenze di un barbaro buono e il suo stile torturato; a rileggerlo, cent’anni dopo, fa ancora compas- sione, così esposto alla bufera dello Spirito come un implume tra le rocce. Non luce, per lui, non pace: le terribili aporie di un Sapere solo apparentemente consolidato gli offuscarono gli occhi, finché – poco meno che trentenne – non li chiuse per sempre. Prendiamo la sua Esperienza religiosa del 1910, o i più celebri Frantumi del 1914, e ci imbatteremo in parole che opprimono, in designazioni pesanti come la materia di certe stelle morte che vagano solitarie nei bui recessi del cosmo. Mistico sì, dunque, ma senza estasi. Quell’anima in pena intraprese una lotta furiosa con il Trascendente, ascetica e impietosa. Con la malattia, conobbe gli effetti della mortificazione che precorre ogni vita mistica. Sperimentò la macerazione, senza pervenire ad un equilibrio tra lo spirito che aspirava alla Grandezza e un corpo che la rigettava: Ci sono angoscie rapide-vaste come bitume di nubi sopra le valli. Avanza avanza… Avanza! Ed ogni cosa è nera. – Ogni cosa è chiara, ogni cosa è nera; ogni cosa è giorno ogni cosa è notte. È notte, è giorno. È chiara… è nera… è nera nera e buia! Così è che chiaronero, chiaronero per gli affannosi crepuscoli preme il respiro l’ottuso cielo dell’impotenza e tutti gli sbocchi son sbarri biechi, tutti!


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l torchiamento di sé è il fulcro vivo dell’ascetismo, e giustamente Blondel lo ritenne un reale esperimento metafisico che coglie tutta la persona. Boine aveva in petto «ansimi rauchi lentissime onde», gli occhi come «pozzi di smarrimento». Mistico sì, ma senza estasi, perché dopo il buio non ci fu dolcezza a inocularsi nel suo essere. Nei Frantumi, come nelle pagine che scrisse su Juan e su Teresa, ci sentiamo urli drammatici, vi indoviniamo una lotta poderosa col divino che non fu mai amore, non fu mai premio: «Allora per l’ombra crepuscolare (avanza, avanza!)… allora chiara chiare nere nell’ombra (inghiotte, inghiotte!)». Miseria e grandezza gli furono accanto; da esse poteva venirgli indiamento, ma il poeta non arrivò in fondo alla notte e Dio non divenne mai spirito del suo spirito. Ecco perché, anche nelle ultime parole del giovane, c’è sempre il ricordo di un bene che si è allontanato e che lui avrebbe voluto presente. Un barlume di quiete, negli anni della maturazione, sembra forse emergere dalla traduzione de Il Libre d’Amic e Amat di Ramon Llull, dove il ligure intrattiene un rapporto emulativo con i testi di riferimento. Mai quanto agli albori del Novecento, la memoria non è “peccato” finché giova. Boine, studioso dei mistici medioevali ed aureosecolari, infatti, credeva che non esistesse novità che non avesse radici nel passato, perché la storia non facit saltus. La letteratura dei Padri e dei mistici spagnoli, apparsa nei comparti de «Il Leonardo» e del «Rinnovamento», spiega l’utilità della storia per la vita moderna. Ciò ci impone di nominare, in breve, l’opzione dei mistici trattati paralle- lamente in questo libro, che poi sono gli innamorati dell’Eterno che di Boine e Papini furono voce e specchio. Un lettore poco familiare con le trattazioni mistiche tenderebbe a credere che le scritture asce- tiche siano, in genere, le variazioni bislacche di un tema obbligato; esercitazioni impersonali, se non addirittura interscambiabili. Ciò che gli sfugge è l’originalità di queste scritture sublimi – talvolta cocenti – dovuta anzitutto ad una sfumatura di tono: quanto più l’esperienza del divino è chiara, tanto più determinato è il linguaggio del mistico; più è alta, maggiormente l’espressione tende a rarefarsi; più è profonda, più le frasi lasceranno solchi incancellabili. Ciò che accomuna questi diversi percorsi è un fermento individuale, lo stesso


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pungolo che spiega i discorsi del critico sul «Rinnovamento» e, in parte, la scelta della citazione da Meister Eckhart in esergo. Questo carattere individuale – specifico dell’itinerario in Dio di ogni tempo – spicca come una pietra preziosa là dove ci occuperemo dei mistici carmelitani che trovarono la loro gioia nel demolirsi, nel vedersi imperfetti; eppure, anche la prosa del monaco francescano Ramon Llull, di tutt’altro tenore, notoriamente fresca, piena d’umanità e di linee delicatissime – o anche di semplice luce – ci rivela un moto spi- rituale vivace, un contemplare primaverile che, nondimeno, nascono dallo stesso fermento individuale di Agostino, Juan de la Cruz e Miguel de Molinos. Attraverso di loro, come sappiamo, Boine e Papini saggiarono un mondo vivo sub specie æternitatis, nel quale gli opposti erano superati; nel dramma della loro anima attecchì, come una lebbra perfetta, la poesia dei prediletti; e gli scritti religiosi – che troviamo nelle Riviste oggetto della mia analisi – vennero ispirati da essi con potenza. Dove i più si sarebbero perduti, Llull si ritrovò, e i colloqui interiori che generarono tormento e disperazione nel ragazzo di Finalmarina, in lui diventarono canti d’allegrezza. Ridurre tutto a gioia fu il segreto del Beato, e Boine non poté che accoglierlo nelle lettere nostrane, prestandogli il suo italiano imaginifico. Un simile effetto rappacificante, inoltre, sul futuro autore de Il pec- cato, dovette averla la Guía espiritual di Molinos; uomo di ingegno penetrativo che osservò assai le creature, diede ricetto a diverse dottrine (anche orientali), ragionò abilmente e capì la psicologia dei suoi ascoltatori; persuaso che l’unico tesoro dell’anima fosse la pace interiore, nessuno scatto ce lo palesò come uno spirito arso dal fuoco dell’Assoluto. La questione del Modernismo e del Pragmatismo, pertanto, è un problema storico che ha bisogno di molte attenzioni. È certamente un segno di decadenza dell’uomo post-positivista quello di non cercare ancora le fonti nei maestri diretti, nei padri e nelle dirompenti per- sonalità dei mistici; e così il non sollevarsi individualmente. Finché l’uomo si accontenta di discutere i problemi sociali, fisici, artistici, filosofici in rapporto a sé e ai suoi simili, poco troverà, perché la vita – come l’arte – è una ricerca che affonda le radici in ragioni esistenziali


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prima ancora che culturali. Boine e Amendola – in violenta pole- mica con Croce – rivendicavano, per l’appunto, la natura metafisica dell’esistenza, riconducendo i problemi e la coscienza dell’uomo sul piano del soggetto trascendentale. Ciò posto, la terra non basta all’uomo per comprendere i suoi problemi e, per quanto egli si sforzi di ridursi entro i ristretti confini del mondo tangibile per capirli, egli deve varcarne i limiti per addentrarsi in un mondo che gli dica di più e meglio. Ma si può pensare a un Dio immanifestato, e dirlo grande senza conoscerne l’azione? Per Papini, riconciliato con la luce, no, non può essere: fosse pure un breve ritorno, una apparizione sola, un arrivare e un ripartire, un segno solo, un balenamento nel cielo, un lume nella notte, l’uomo ha bisogno di vedere il suo Dio. Per questo, il noto autore di Storia di Cristo (1921) – teso a varare la tenuta strutturale del testo che aveva appena composto e offerto come una “proposta d’immagini” – pensa a Ignacio de Loyola, da cui mutua l’interesse per i “problemi” dello spazio percettivo (l’in- tervallo spazio-temporale che Henry Corbin ha chiamato Mundus imaginalis), dove l’asceta giunge a sentire l’Assoluto e a diventare Quello. Come ho già esposto nel capitolo III di Spiriti cercanti – e nel VI della presente edizione – Giovanni Papini calcola con precisione la scrittura e l’effetto che vuol produrre sull’interlocutore; foggia il narrato in tableaux e in pièces lirico-drammatiche, col proposito di rendere vivo il Divino nell’occhio del lettore. Sarà subito compreso che gli approdi dell’autore toscano all’evangelizzazione dell’uomo moderno − attuata specialmente attraverso il tramite della vista − si chiariranno in funzione delle fitte relazioni tra la Storia di Cristo e gli Exercicios spirituales del Loyola. Qui, il passaggio dal sensibile all’intelligibile è spiegato più simbolicamente che misticamente. Tale simbolismo dimostra, nel gesuita, un’immaginazione pronta, ma niente a che vedere col misticismo, che è sete di Dio e sforzo per disintegrarsi in Lui. L’amore per l’Assoluto è, alla scuola gesuitica, frutto d’un giudizio che viene dato sempre dall’intelletto, ossia è il cervello che vaglia, agisce ed ama; la qual cosa assai ci allontana dai rapimenti di una Angela da Foligno o di una Thérèse de Lisieux che non chiedono di conoscere Dio, ma di esserLo totalmente. A ben vedere, però, la ricerca del Sovrumano nel sensibile e nell’immaginazione –


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promossa nell’opera ignaziana – ha il merito di condurre l’uomo alla concentrazione interiore: un vestigio celeste, trovato nel mondo sensibile, ci suggerisce un approfondimento del divino stesso, ci induce cioè a cercare in lui un’immagine più netta della divinità. Entriamo in noi e scrutiamoci accuratamente – sembra essere il monito del Loyola ripreso da Papini – con metodo e misura, perché la logica è riflesso della Verità eterna. La solitudine del romitorio aiu- terà la meditazione su molti problemi pratici e teorici, semplificherà i bisogni e dischiuderà l’animo a visioni superiori; ma assottiglierà anche il collegamento con gli altri uomini a tal punto da produrre distacchi e incomprensioni. Eppure, in definitiva, il mistico non si preoccupa di essere com- preso, neanche quando è uno scrittore con i pruriti del pedagogo; neanche quando – come nel caso di Thérèse de Lisieux – dirà speri- colatamente di non voler restare in cielo, una volta transitata, perché «io discenderò!». Questo si spiega col fatto che la via mistica, per suo statuto, affievolisce nell’asceta l’interesse per l’umano, per il suo vivere, patire ed operare. Allora, qual è il senso di un avviso come «Tutto passa in questo mondo mortale, anche la piccola Teresa passa... ma tornerà!»? Perché Teresa, negli ultimi mesi di vita, era assillata dal desiderio di tornare sulla terra, una volta arrivata in cielo? Perché ci pensava sempre, domandandosi con l’insistenza di Tiberio – che chiedeva continuamente ai suoi grammatici cosa cantassero le sirene – se sarebbe stato possibile? Già in primavera, a sei mesi dalla morte, suor Maria del Sacro Cuore, avendola vista in preghiera nell’eremitaggio di San Giuseppe, le disse: «Che cosa chiedi con tanto fervore?». E Teresa più ostinata che mai: «Chiedo a San Giuseppe di voler sostenere presso Dio il mio grande desiderio di tornare sulla terra...». Contrariamente a quanto sembra – e a quanto, in altra sede, scriveva la mistica – ciò che la spinge a desiderare di “discendere” non è la redenzione dell’uomo che resta, ma l’occasione di morire ancora, lo stimulus amoris che le intimava di morire la vita. Perché la vera vita si trova nel luogo della vera morte. Morire tutto per trovare Tutto. Soltanto allora – con un piede già in cielo – Teresina può permettersi la licenza di voler tornare in terra, nel regno dei morti, con candore di fiamma: lei, eterna abbandonante.


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Attraverso le personalità che, in modo più o meno soggiacente, popolano questo libro, ho cercato di far risaltare l’essenza del loro misticismo e di ricondurlo sul piano dell’arte letteraria, a dispetto di chi sostiene che il linguaggio umano difetti nel tentativo di dare un senso all’esperienza dell’Uomo-Dio. Il pretesto è il tracciato “car- tografico” del percorso spirituale di due poeti di Primo Novecento; grazie a loro, con la freschezza di un’età nuova, soffuse di poesia e di sapienza, le trattazioni mistiche hanno risvegliato le coscienze dei loro contemporanei, riattivando in taluni il senso dell’eterno. Con Papini e Boine, abbiamo compreso anche che il misticismo è una conoscenza effettiva dell’uomo, del divino e dei loro rapporti d’amore, e, benché abbia un oggetto universale in sé, questo non può essere còlto se non mediante un’esperienza individualissima, abissale.

Roma, gennaio 2008 Giona Tuccini


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